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«Il male sacro», dentro le inquietudini della modernità

«Il male sacro», dentro le inquietudini della modernità  Il Festival dei due mondi si chiude con la drammaturgia di Antonio…

«Il male sacro», dentro le inquietudini della modernità

 Il Festival dei due mondi si chiude con la drammaturgia di Antonio Latella tratta dal testo di Massimo Binazzi

Si è chiuso il Festival dei due mondi, che per il teatro (come per la musica e per la danza ovviamente, ma in quei campi nomi e programmi erano già «acclarati») ha costituito e costruito quest’anno un approfondimento particolarmente interessante. Molto significativa si è rivelata così la collaborazione con l’Accademia nazionale dell’arte drammatica Silvio D’Amico, che dopo il gioiello inaugurale preparato da Carlo Cecchi, vero maestro di nuove generazioni artistiche, con l’irresistibile Feydeau costruito su misura per un gruppo di allievi, ha presentato un’opera sorprendente ripescata dalla memoria (labile o distratta, chissà) del teatro di qualche decennio fa. Merito, e coraggio, da ascrivere ad Antonio Latella, regista non nuovo ad esperienze di teatro «allargato», che ha ripreso un testo di cui pochi si ricordavano o avevano conoscenza, Il male sacro, scritto da Massimo Binazzi, e pubblicato da Einaudi nel 1963.

LA DATA è interessante, perché è del 1964 il romanzo di Giuseppe Berto (pluripremiato, appoggiato da critici come Gadda e Salinari, e immortalato da Mario Monicelli in un denso film con Giannini) dal titolo molto simile, Il male oscuro. Ed entrambe le opere, pur diversissime, affrontano il malessere della «modernità, che il boom economico di quegli anni aveva fatto esplodere dentro le coscienze più sensibili. Per Berto in una indagine analitica del proprio malessere, mentre per il drammaturgo Binazzi, come è chiaro fin dal titolo, in un viaggio nelle origini oscure e mitologiche del teatro. Che a tratti, in questa opera monstre, sembra davvero attingere alla tragedia antica, ai suoi valori e alle sue regole che non possono combaciare con la modernità (condividendo tra l’altro i due autori il «punto di riferimento» nella Calabria, natìa per Berto e mitologica per l’umbro Binazzi).I quattro episodi si muovono tra visioni che lambiscono il mito e momenti di carnalità
Il male sacro cui fa riferimento nel titolo il dramma di Binazzi è l’epilessia, per la quale in quegli anni si strutturavano le prime forme terapeutiche moderne, al di là delle quali resta originario il mistero (e per certi versi quasi il fascino) delle sue manifestazioni e dei suoi sviluppi. Antonio Latella dichiara di essere rimasto affascinato da quell’opera incontrata per caso in una biblioteca una ventina di anni fa, che ha potuto prendere corpo solo grazie alla esperienza formativa con gli allievi dell’Accademia fondata da Silvio D’amico. Il risultato è stato presentato, nello spazio glorioso del Teatrino delle Sei intitolato a Luca Ronconi, in una corposa maratona di circa dieci ore di durata (ben articolata grazie anche alla squadra artistica con cui Latella lavora abitualmente).

I QUATTRO «episodi» sono anche assai diversi tra loro, e non è indispensabile cercarvi un filo narrativo continuo di stretta coerenza, perché alle vicende personali ed esistenziali fanno da sfondo e insieme cassa di risonanza la visceralità dei percorsi di ognuno in scena, tra visioni che lambiscono il mito e momenti di sofferente carnalità. Uno spettacolo che è riduttivo definire tale, dove la malattia si fa gravame ma anche possibilità di visioni quasi ultraterrene, che la consumata perizia di Latella sa intrecciare con momenti di recitazione dove le parole assumano un forte senso. Così come in altri momenti (soprattutto nella terza e quarta parte) i corpi liberi di scatenarsi davvero evocano ultraterrene sensibilità, quasi un musical interiore che oltre la malattia e il peso delle tradizioni renda perfino «accettabile» il dolore e la difficoltà di amarsi. Insomma uno «spettacolo», se così si può dire, certo inquietante, ma con un barlume liberatorio sul fondo, grazie anche alla disponibilità e prestanza di questa nuova generazione di attrici e attori.
Sugli equivoci del mondo dello spettacolo, come ambiente e come valori, indaga anche Ciarlatani dello spagnolo Pablo Remon. Nonostante la presenza sempre straordinaria in scena di Silvio Orlando, il testo suona abbastanza scontato, ma sarà da vedere in stagione, almeno a Roma all’Argentina, il cui Teatro ne è coproduttore.

SORPRENDENTE e affascinante già ora è un testo classico del novecento come la Relazione per l’Accademia di Franz Kafka. Da quel romanzo, a compiere la trasformazione sono un attore tedesco, Fabian Jung, e il regista Luca Marinelli. Che tutti conosciamo come ottimo attore, protagonista di tanti film (dopo aver debuttato nel saggio d’Accademia bellissimo e indimenticato, realizzato proprio da Carlo Cecchi con il Sogno di una notte di mezza estate) e che qui si rivela già regista all’altezza. L’attore recita in italiano perfetto, quel suo lieve accento germanico rende alla perfezione il «gradino« non solo linguistico della trasformazione da scimmia in umano del protagonista. Si può anche sorridere con Kafka, si sa, ma sotto il peso di una «rivelazione» mai troppo leggera; come certi marchingegni scenici che a tratti rimbombano in tutta la sala dell’Auditorium della Stella. Coproduttore con Spoleto è qui il Teatro stabile dell’Umbria.

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