
Saggio di diploma del corso accademico di I livello in Regia
Il verbo
Tratto dagli scritti di Kaj Munk
Regia Mattia Spedicato
Con
Giovanni Conti
Davide Fasano
Gabriele Graham Gasco
Arianna Pozzi
Michele Scarcella
riscrittura drammaturgica Mattia Spedicato
Supervisione ai movimenti Marco Angelilli
Costumista Valeria Forconi
Direttore di scena e Lighting design Camilla Piccioni
Sound designer e fonico Stefano Crialesi
Sarta di scena Maria Giovanna Spedicati
Assistente alla regia Serena Ruggiero
Foto di scena e locandina Manuela Giusto
Video di scena Carlo Fabiano
Durata 90 minuti
Clicca per prenotare il 10 aprile 2025 ore 19.00
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SINOSSI
Anni ’30 del XX secolo. In un piccolo villaggio della campagna danese vivono i Borgen, la famiglia di proprietari terrieri più influente della zona. La famiglia è composta da tre fratelli: Mikkel, il maggiore, che gestisce la tenuta e vive felicemente con sua moglie Inger; Anders, il minore, innamorato della giovane Anne, appartenente a una famiglia pietista (una tendenza del protestantesimo), con la quale desidera sposarsi nonostante l’opposizione di entrambe le famiglie; e Johannes, il secondogenito, che dopo un trauma personale causato dalla morte della fidanzata, è convinto di essere Gesù Cristo e di poter compiere miracoli. Inger, unica figura femminile in casa Borgen, è il pilastro della famiglia e guarda alla vita con un romantico idealismo, credendo fermamente che l’amore sia l’unica cosa che davvero conti.
A rompere l’equilibrio di questa famiglia arriverà Ejnar Kargo, il nuovo pastore, giunto nel villaggio da Copenaghen per predicare l’onnipotenza dell’amore.
Al centro dell’opera, Amore e Morte sono i temi che i protagonisti si trovano a esplorare e che li spingono a interrogarsi sulla natura divina e sul senso della sofferenza. In un mondo dove il miracolo sembra lontano e il dolore non si ferma, la domanda che ciascuno si pone è: “Dov’è Dio? Perché permette che il male e il dolore esistano?”
NOTE DI REGIA
Esattamente cento anni fa, un giovane pastore della Chiesa di Stato danese scriveva, in meno di una settimana, un dramma dal titolo Ordet (La Parola, Il Verbo), un testo che esplora la possibilità del miracolo nel mondo moderno e pone chiunque ne fruisca di fronte alla domanda: “Dov’è Dio?”. Un tema che trascende il tempo e si pone come cuore pulsante dell’opera, chiedendosi se, in un mondo che sembra sempre più lontano dalla spiritualità, ci sia ancora spazio per il miracolo e la fede.
Nel 1955, il film di Carl Theodor Dreyer, tratto da quest’opera, conquistò il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, ma l’autore di questo capolavoro teatrale, Kaj Munk, è rimasto in gran parte sconosciuto, soprattutto in Italia. Munk, nato a Maribo nel 1898, si formò come pastore della Chiesa di Stato nella città di Copenaghen, per poi esercitare il suo ufficio nella campestre provincia danese. Esercitò un ruolo importante sulle scene teatrali nordiche, tanto da essere considerato dai suoi contemporanei l’Ibsen del XX secolo e da sfiorare il Nobel. Nonostante il suo ufficio, il geniale pastore di provincia era una figura contraddittoria, dalla fede inquieta, se non proprio vacillante, che – dopo una fase in cui si era distinto per le sue posizioni filofasciste – sarebbe finito assassinato dai nazisti nel 1944 come uno dei capi morali della Resistenza durante l’occupazione della Danimarca. Molto probabilmente la damnatio memoriae cui Kaj Munk è stato sottoposto nel nostro paese deriva proprio da queste sue contraddittorie posizioni politiche.
La scelta di lavorare su Kaj Munk e su un testo così denso e sconosciuto alla tradizione teatrale italiana risponde a una mia costante esigenza di dare voce a testi dimenticati, riscoprire autori caduti nell’oblio e, soprattutto, affrontare temi universali che riguardano la condizione umana. Nel mio percorso da allievo regista presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, ho affrontato temi come la morte, l’amore impossibile, il conflitto tra sacro e modernità, e la lotta politica, in autori come Strindberg, Camus e Pasolini. Ora, con Il verbo, il tema di fondo è ancora una volta quello che attraversa tutta la mia ricerca: Eros e Thanatos.
Per questo motivo un testo come Il verbo e un autore come Kaj Munk – nei quali mi sono imbattuto per puro caso o forse, a questo punto, sarebbe meglio dire per destino – non potevano essermi indifferenti e mi sono sembrati la scelta migliore da fare come saggio di diploma.
La sfida sembrava ardua già così. Il verbo è un testo estremamente difficile da recitare, con un’intensità che sfida la comprensione immediata. Non mi sono limitato però a lavorare sul testo così com’era: ho deciso di riscrivere, di scomporre il testo, di affiancarlo a un’altra opera di Munk, Amore, scritta nel 1926, creando una fusione tra i due testi e trasformando il dramma in una nuova, più complessa composizione teatrale. Ho fatto delle scelte: ho eliminato alcuni personaggi, ne ho potenziato altri, ho riscritto scene, rielaborato situazioni e ho adattato i temi di un’opera all’altra, per cercare di intensificare il conflitto e raggiungere l’essenza drammatica di Munk.
Questo processo è stato estremamente corale. Insieme ad attrici, attori e assistente alla regia abbiamo lavorato come una squadra: abbiamo letto e analizzato i testi, visto il film di Dreyer e improvvisato su alcune scene. Ogni membro del cast ha contribuito con la propria interpretazione e, attraverso il lavoro attoriale, abbiamo sfoltito e rifinito il materiale. Non si è trattato solo di adattare il testo, ma di immergersi nel dramma, nei suoi temi universali come la ricerca della fede, l’amore impossibile e il tormento della vita interiore.
Il lavoro è stato impegnativo e in certi momenti molto difficile. Non è stato un processo lineare, ma una serie di aggiustamenti, riflessioni e scoperte continue, dove ogni dettaglio, ogni parola, ogni gesto aveva un peso. L’intento è stato quello di stimolare domande, di provocare riflessioni, senza la pretesa di offrire risposte. Proprio come il dramma di Munk, anche il nostro lavoro non pretende di risolvere il mistero del miracolo o della fede, ma piuttosto di aprirne la discussione.
A mio modesto parere, il nostro compito di teatranti non è quello di dare delle risposte ai grandi temi dell’uomo, quanto piuttosto di porre domande e di stimolare il pensiero critico in chi ci guarda.
Ringrazio profondamente tutta la squadra artistica e quella tecnica che ha supportato questo progetto, per la loro dedizione, passione e coraggio, anche nei momenti più difficili. Se ci siamo riusciti? Non lo so. Al pubblico l’ardua sentenza.