Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico
Fondazione Teatro della Toscana

presentano

LA MAFIA
Dramma in cinque atti
di Luigi Sturzo

riduzione e adattamento Piero Maccarinelli
con (in ordine di apparizione)

Lorenzo Guadalupi (Avv. Giulio Racconigi)
Athos Leonardi (Barone D’Acquasanta)
Iacopo Nestori (Avv. Fedeli)
Luca Pedron (On. di San Baronio)
Sebastiano Spada (Cav. Enrico Ambrosetti)
Filippo Lai (Comm. Roberto Palica)
Diego Giangrasso (Cav. Serimondi)
Adriano Exacoustos (Cav. Andrea Tarbi)
Paride Cicirello (Accarano)
Francesco Grossi (Maggiordomo)

 

scene Gianluca Amodio
costumi Laura Giannisi
musiche Antonio Di Pofi
luci Javier Delle Monache
aiuto regia Danilo Capezzani
foto Tommaso Le Pera

uno spettacolo di Piero Maccarinelli
con il patrocinio dell’ Istituto Luigi Sturzo Roma

 

Un intreccio tra mafia e politica che ha anticipato la realtà attuale di oltre un secolo
Febbraio 1900. A Caltagirone, al Teatro Silvio Pellico, si rappresenta La Mafia, di Luigi Sturzo, dramma in cinque atti su un fenomeno criminale fiorente, che parla di Bene e di Male, ma che è anche storia vera.
Una testimonianza dei legami già allora esistenti tra mafia e politica; legami ripetuti, complessi e forti al punto di condizionare le aule di giustizia. Al centro della messa in scena l’omicidio avvenuto nel 1893 del cavalier Emanuele Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia, ex sindaco di Palermo e deputato del Regno.
Un delitto eccellente per cui la pubblica accusa aveva individuato come mandante l’on. Raffaele Palizzolo, una circostanza che causò enormi difficoltà e lungaggini allo svolgimento dei processi a carico di ideatori ed esecutori dell’omicidio.
Una situazione intricata e melmosa da cui non a caso scaturirono sentenze contraddittorie: Palizzolo condannato in primo grado, venne assolto in appello dodici anni dopo, nel 1905.
Era stato proprio Luigi Sturzo, alla vigilia della rappresentazione del suo dramma, a sottolineare in un articolo a sua firma sulla Croce di Costantino dal titolo La Mafia, i condizionamenti processuali e l’inquinamento evidente della vita sociale, culturale, economica e politica della giovane nazione. Così ragionava don Sturzo sul perché fosse stato ucciso il cavaliere Notarbartolo e sui motivi delle lentezze processuali:
«Chi ha seguito con attenzione il processo, vedrà come anche quest’ultimo fatto è un effetto della mafia, che stringe nei suoi tentacoli giustizia, polizia, amministrazione, politica; di quella mafia che oggi serve per domani esser servita, protegge per essere protetta, ha i piedi in Sicilia ma afferra anche Roma, penetra nei gabinetti ministeriali, nei corridoi di Montecitorio, viola segreti, sottrae documenti, costringe uomini creduti fior di onestà ad atti disonoranti e violenti. Ormai il dubbio, la diffidenza, la tristezza, l’abbandono invade l’animo dei buoni, e si conchiude per disperare. Sin che vi era una magistratura da potervisi fidare, incorrotta, cosciente dei propri doveri, superiore a qualsiasi influenza politica, potevasi sperare, poco sì, ma qualche cosa di buono. Ora nessuna speranza brilla nel cuore degli italiani.
Gli alti papaveri commettono concussioni, furti, omicidi, e quando si è arrivati con l’acqua al collo, si tenta il salvataggio.
I giornali son pieni di fatterelli e di fattacci della mafia siciliana e specialmente dell’on. Palizzolo; sono lunghe narrazioni d’imbrogli e di sopraffazioni, durati da un trentennio e più; con l’appoggio di tutti i governi e i ministeri. E la rivelazione spaventevole dell’inquinamento morale dell’Italia, sono le piaghe cancrenose della nostra patria, la immoralità trionfante nel governo. Il fremito, l’indignazione traboccano; ma sono inutili manifestazioni di chi non vuol vivere la immonda vita politica moderna. E come potremo educare i nostri figli? Quali esempi daremo loro? Che speranze pel bene della patria desteremo nei loro cuori? Quale ispireremo in loro fede delle patrie istituzioni? Come nella decadenza dell’impero romano, dovremmo dunque ripetere ai figli che ansiosi ci guardano: segati le vene e muori, per non servire alla perfidia e alla tirannia? Ai cattolici, ai clericali, agli intransigenti, i soli immuni del cancro dell’immoralità pubblica, la risposta.»
Il grido d’accusa rappresentato nel testo firmato da Sturzo La mafia – dramma in cinque atti, determinerà una scelta incontrovertibile dello statista siciliano, in cui prendono vita davanti agli spettatori i modelli di malaffare, gli interessi illeciti, le complicità, le contiguità e correità, sino alla partecipazione all’associazione criminale mafiosa, tutti vòlti al controllo della cosa pubblica e della politica, al fine di occupare i processi economici e sociali, ben prima della normazione del 416 bis del codice penale o dell’intervento giurisprudenziale del concorso esterno in associazione mafiosa.
Intenzione di Luigi Sturzo, già consigliere comunale di Caltagirone e fautore dell’intervento diretto dei cattolici in politica mediante un partito laico e autonomo dalla Chiesa e dal controllo dei consolidati ed elitari schieramenti della sinistra e destra storica presenti nel Parlamento del Regno, era quella di denunciare un grave fenomeno criminale, ma anche di fare formazione civile.
Sturzo aveva l’obiettivo di indirizzare le masse, in gran parte composte da persone che non sapevano leggere, con un messaggio semplice, basato su fatti reali. Allo scopo di rendere per loro possibile una scelta consapevole, di responsabilità. Oggi la potremmo definire “una scelta di campo per il bene comune e la giustizia sociale”.
Ma questa infiltrazione criminale mafiosa nei gangli della vita pubblica ed istituzionale del Paese, sebbene così fortemente denunciata da don Sturzo, non solo non trovava sufficiente riscontro attivo tra gli “immuni al cancro della immoralità pubblica”, soprattutto era lasciata crescere e pervadere ogni angolo della battaglia politica nazionale, dall’ambito comunale sino al Governo nazionale, afferrando Roma ed entrando pericolosamente, attraverso alcuni uomini politici a disposizione della mafia, nelle scelte di buon governo del Paese, indirizzandole verso una spartizione con i rappresentanti del partito affarista, diffusi in ogni dove, trasformando così, a dire di don Sturzo, il popolo sovrano nel “Re di burla”.
La battaglia di don Sturzo contro la mafia e la partitocrazia connessa alla corruzione, al clientelismo e all’abuso del denaro e del potere pubblico, fu avversata nel modo più classico attraverso un metodo sempre in voga: la congiura del silenzio, andata avanti anche nel dopoguerra e fino a oggi, sebbene una parte politica sia stata tragicamente decimata anche dal cancro della immoralità, della corruzione e dell’infiltrazione mafiosa.
Non è un caso che, salvo pochi studiosi, il contributo antimafia di don Sturzo comune alla sua lotta contro quelle che chiamava “le male bestie” che divorano la democrazia italiana, (la partitocrazia, lo statalismo e l’abuso del denaro pubblico), non sia mai stata analizzata compiutamente e, tantomeno, valutata nel considerare le cause del ritardo dello sviluppo del Mezzogiorno d’Italia. Né è stata mai presa almeno ad esempio di impegno civile.
Ha scritto Leonardo Sciascia, in un articolo sul Corriere della Sera del 1987: «Ed è esemplare la vicenda del dramma La mafia di Luigi Sturzo. Scritto, nel 1900, e rappresentato in un teatrino di Caltagirone, non si trovò, tra le carte di Sturzo, dopo la sua morte, il quinto atto che lo, completava; e lo scrisse Diego Fabbri, volgarmente pirandelleggiando
e, con edificante conclusione. Ritrovati più tardi gli abboni di Sturzo per, il quinto atto, si scopriva la ragione per cui la ‘pièce’ era stata dal suo autore chiamata dramma (il che avrebbe dovuto essere per Fabbri, avvertimento e non a concluderla col trionfo del bene): andava a finir, male e nel male, coerentemente a quel che don Luigi Sturzo sapeva e vedeva. Siciliano di Caltagirone, paese in cui la mafia allora soltanto, sporadicamente sconfinava, bisogna dargli merito di aver avuto, chiarissima nozione del fenomeno nelle sue articolazioni, implicazioni e, complicità; e di averlo sentito come problema talmente vasto, urgente e, penoso da cimentarsi a darne un ‘esempio’ (parola cara a san Bernardino), sulla scena del suo teatrino. E come poi dal suo Partito Popolare sia, venuta fuori una Democrazia Cristiana a dir poco indifferente al problema, non è certo un mistero: ma richiederà, dagli storici, un’indagine e un’analisi di non poca difficoltà. E ci vorrà del tempo; almeno quanto ce n’è voluto per avere finalmente questa accurata, indagine e sensata analisi di Christopher Duggan su mafia e fascismo.»

L’attualità del dramma
La grave denuncia rappresentata nel citato La mafia- dramma in cinque atti, determinerà una scelta incontrovertibile dello statista siciliano, in cui prendono vita davanti agli spettatori i modelli di malaffare collegati al favoreggiamento di interessi illeciti, alle complicità, contiguità, correità, sino alla partecipazione all’associazione criminale mafiosa, tutti vòlti al controllo della cosa pubblica e della politica, al fine di occupare i processi economici e sociali. E questo ben prima della normazione del 416 bis del codice penale o dell’intervento giurisprudenziale del concorso esterno in associazione mafiosa. Il punto saliente del dramma è quello in cui don Sturzo fa raccontare al boss Accarano (una sorta di Riina Salvatore dell’epoca), (capo di una famiglia mafiosa locale collegata con il candidato sindaco Palica, espressione degli interessi del partito affarista e delle sue connessioni parlamentari rappresentate dall’onorevole di San Baronio), il suo sistema di contiguità. Accarano confessa al pubblico il suo interesse criminale, il suo progetto di diventare centrale nell’economia locale e di occupare ogni spazio democratico, evidentemente per piegarlo alla sopraffazione dei suoi illeciti: «A me l’amicizia del comm. Palica fa bene e giova. È un gran protettore della mafia e basta; la nostra società entra in tutti gli affari del municipio, negli appalti, nelle imprese, e ci ha i suoi guadagni. E poi, ruberie di campagne o vendette e lui ci ha aperto il suo casale di Sant’Eufemia; la questura non ci molesta; abbiamo spie anche nella Prefettura, e l’on. di San Baronio ci ha fatto dei grandi servigi.»
Oltre a Leonardo Sciascia, merita una menzione, il commento di Umberto Santino, tratto dalla Storia del movimento antimafia. Il Santino è ideologicamente di parte contraria al popolarismo sturziano. È da quelle parole che possiamo trarre l’assoluta attualità dell’impegno antimafia di don Sturzo, ma anche quello della battaglia per il bene comune. La mafia: «Il testo sturziano (..) è un preciso atto di accusa e ha una sua validità sul piano analitico, per la piena consapevolezza della complessità della mafia, del suo ruolo nell’economia e dei suoi rapporti con le istituzioni: sotto la protezione dell’uomo politico il mafioso “entra in tutti gli affari del municipio, negli appalti, nelle imprese, e ci ha i suoi guadagni”. Uno sguardo puntato sul presente, che intravede sviluppi futuri.»
Gli sviluppi futuri non sono mancati. Si sono verificati ovunque nella pubblica amministrazione, ogni volta che sono transitati denari da distribuire, appalti da assegnare, concessioni ed autorizzazioni amministrative da rilasciare. Un contesto in cui, nonostante il crollo della Prima Repubblica, l’immoralità e la corruzione di alcuni, il silenzio di tanti, hanno consentito di far avanzare man mano l’economia del malaffare, i trafficanti di influenze, i rappresentanti del partito affarista, le infiltrazioni mafiose. Tutti impegnati in una continua mediazione dei loro interessi illeciti per produrre bene solo per loro e male per il resto dei cittadini. L’effetto prodotto è stata la marginalizzazione dei buoni amministratori pubblici che non faranno mai carriera; i politici onesti che non saranno ricandidati; gli imprenditori della sana economia di mercato che sono stati sostituiti da prenditori del modello di elargizione statalista controllato dalle lobby del malaffare. Ciò sulla base di un rapporto di scambio basato su clientela e corruzione, basato su enormi risorse di capitali illeciti, controllati dalle mafie.
Un declino che sta riducendo lo spazio degli uomini liberi, della cultura democratica e delle regole costituzionali. Un declino che ha un moltiplicatore nel silenzio della connivenza. Nella paura di affermare verità scomode, rendendo ossequio al potere oscuro di chi vorrebbe controllare tutto. Coloro che hanno ingenti risorse di denaro illecito da investire in questa demolizione dello stato democratico: «Avanti, Accarano col tempo avrà tutto nelle sue mani.»
Il rispetto delle parole scritte da Sturzo e delle sue intenzioni ci ha indotto a considerare come finale la prima scena del quinto atto da lui scritto. Per questo nella riduzione e adattamento di Piero Maccarinelli il testo può considerarsi un inedito assoluto che verrà prossimamente pubblicato. Un ringraziamento particolare all’Istituto Sturzo e a Gaspare Sturzo.
Piero Maccarinelli – Gaspare Sturzo

Lo spettacolo coprodotto dalla Fondazione Teatro della Toscana e dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” debutterà in anteprima al Teatro Duse di Roma l’8 maggio 2021 e al Teatro della Pergola di Firenze – in PRIMA NAZIONALE – il 13 maggio 2021 dove verrà ripreso da RAI Cultura per RAI 5 in onda il 29 maggio 2021.

Tutte le date
Teatro della Pergola di Firenze
  • 8 May 2021 - hours 19:00
  • 13 May 2021 - hours 18:00